Testo critico di Agata Keran
Testo critico di Agata Keran, estratto dalla rivista trimestrale “Amedit”, autunno 2020.
Incisore, scultore, pittore: tre specialità che segnano e scandiscono la ricerca espressiva di un artista pensatore, per molti aspetti controcorrente. Dal bulino allo scalpello, per dedicarsi , negli ultimi tempi e quasi per sfida, anche alla lievità finora inesplorata del pennello e alle sue inattese alchimie cromatiche. Un percorso sfaccettato e, al contempo, coerente e organico, senza cesure o ripensamenti. In ogni epifania del suo multiforme estro, Maurizio D’Agostini continua pertanto a scolpire alacremente il segno, a donare un respiro volumetrico alla materia trattata. Balza alla mente dai cassetti della memoria l’espressione “scolpire il tempo”, coniata dal regista Andrej Tarkovskij, i cui temi cinematografici presentano molte affinità e tangenze con il fecondo immaginario dell’artista veneto. Una forma mentis figurativa, sollecitata sovente da immagini filmiche, teatrali e musicali, in cui trovano casa miti e presenze allegoriche legate a un tempo fuori dalla storia, al di là del presente caotico che ci circonda e mette a soqquadro l’equilibrio psichico dell’individuo. L’arte di Maurizio è una forma di bilancia visiva ed emozionale tra l’antico quasi ancestrale e la tensione continua verso nuovi orizzonti, da scavare ancora con attrezzi esplorativi dell’homo faber. Egli appartiene alla genia dei classici controcorrente: le sue immagini di Venere non assomigliano per nulla a quella di Milo o della sua discendente spirituale dipinta da Botticelli, ma riportano lo sguardo verso l’archetipo primordiale della Grande Madre, tentando di forgiare un ologramma di carattere più aperto e universale, in cui la tradizione formale del mondo occidentale incontra in modo curioso e sincero le memorie sacre d’Oriente, sulla scia illuminante di Mircea Eliade e Constantin Brancusi. Non a caso, anche per la produzione plastica di D’Agostini – seppur stilisticamente lontana dal linguaggio pìù essenziale e primitivista dello scultore romeno – calzano a perfezione le parole del grande studioso dei miti dedicate a Brancusi: “[Egli] ha riscoperto la visione straordinaria di un uomo per il quale la pietra esiste, la roccia esiste, in un modo, diciamo, “ierofanico”. Ha ritrovato dall’interno, l’universo di valori dell’uomo arcaico. ( … ] lo sono sempre stato affascinato da questo problema: come ritrovare l’unità fondamentale, se non del genere umano, almeno di una certa civiltà indivisa nel passato dell’Europa?” (in M. Eliade, La prova def labirinto, Milano1990, p. 58). La ricerca spirituale che D’Agostini continua ad affinare nel corso del tempo ha una particolare vena geoculturale che nulla toglie alla sua vocazione globale: il suo temperamento espressivo tocca le corde profonde del paesaggio veneto, di cui egli si mostra cantore e genius foci. I colori gentili della terra nobile di Andrea Palladio, Giangiorgio Trissino e Antonio Pigafetta e la materia morbida e plasmabile dei colli berici ed euganei, costellati di numerosi gioielli architettonici, rimangono nella filigrana di ogni sua creazione. Misura, estro e armonia: il mito delle origini prende corpo nuovamente, rigenerandosi appieno, e diventa poesia figurata di un presente eterno e assieme intimo. Sogno ad occhi aperti di curare un allestimento di queste opere simbolicamente eloquenti nel loro habitat naturale, ossia all’interno di una delle ville antiche dove gli ambienti interni ed esterni, a partire dal cornicione o dal giardino, riverbera noi medesimi temi e quesiti della classicità, restituiti allo sguardo contemporaneo in seguito a una riscrittura sostanziale del loro messaggio ultimo. Uno degli apici qualitativi di questo processo di restituzione originale della tradizione mitologica è il ciclo scultoreo di sette Pianeti, realizzati in terracotta dipinta (semirè) tra il 2002 e il 2009 in seguito a un’importante sollecitazione musicale legata all’omonima suite per grande orchestra di Gustav Theodor Holst, di intensa ispirazione teosofica, scritta tra il 1914 e li 1916. Racconta lo stesso autore: “Mi appassionai alla suite musicale de I sette pianeti di Gustav Holst a casa di amici, i coniugi Borgato. [ … J Ero inebriato da quelle musiche. Il mio scopo consisteva nel materializzare quei suoni secondo le mie visioni, riuscire a creare delle sculture che fossero in grado di rappresentare le musiche che ascoltavo. Fu un’impresa dl cui vado molto fiero, una ricerca e una sperimentazione che mi ha portato molto lontano, nel mondo esaltante del mistero e dell’inconscio. E cosi nacquero in ordine temporale Giove, Saturno, Marte, Venere, Nettuno, Mercurio e Urano.” (in f pianeti di Maurizio D’Agostini, s.l. 2016, p. 11 ). Dopo una lunga meditazione sull’argomento, ogni movimento sonoro di Holst acquisisce un equivalente plastico attraverso il gesto creativo dell’artista veneto: Mars, the Bringer of War,· Venus. the Bringer of Peace; Mercury, the Winged Messenger; Jupiter. the Bringer of Jollity; Saturn, the Bringer of 0ld Age; Uranus, the Magician; Neptune, the Mystic. Il prezioso bagaglio sapienziale del mito, che ha incantato gli umanisti del passato, incontra in quest’occasione la sensibilità del “secolo breve”, lacerato da aspri conflitti e radicali trasformazioni, per salutare con grande energia espressiva l’alba del nuovo millennio, rendendo viva la promessa della sopravvivenza degli antichi dei oltre la soglia dell’era digitale. La dimensione storica e antropologica del mito lascia spazio alla visione personale e soggettiva dell’artista demiurgo che risemantizza liberamente un racconto radicato tra i meandri nell’immaginario collettivo. “Le sculture dei sette pianeti sono in realtà la rappresentazione visiva delle mie molteplici personalità. Le_m ie opere nascono dallo scatenamento dell’immaginazione, che si trasforma.
di Agata Keran