Articolo di Maurizia Veladiano
Articolo di Maurizia Veladiano, Giornale di Vicenza del 28 luglio 2020
Articolo di Maurizia Veladiano, Giornale di Vicenza del 28 luglio 2020
Testo critico di Daniele Radini Tedeschi, Atlante dell’Arte Contemporanea De Agostini 2020
MAURIZIO D’ AGOSTINI L’alfabeto segreto della scultura di Daniele Radini Tedeschi In molte statue o sculture ernergono valori poetici ma se questi fossero l’unica peculiarità di Maurizio D’Agostini non vi sarebbe distinzione con gli altri grandi nomi del Secondo Novecento quali Marini Messina O Mazzacurati solo per citarne alcuni D) Agostini propone un. lirismo gen,erale alla ~-u_naa rrazione e non alle singole opere, quasi come se Iniettasse la sua elegia ad un mondo a se stant~~ le_cui gerarchie fantasiose esistono perché è lui stesso, 1 artista, ad averle erette. Se gli altri suoi colleghi scolpiscono, d’ Agostini plasma i11 senso demiurgico o nella maniera in cui gli alchimisti -di Praga modellavano i loro Golem. – E l’effetto che si prova quando si approda alla sua produzione non è poi così dissimile da quello percepito nel 197 4 dal contadino cinese Yang Zhif a quando per caso scavando in un pozzo scoprì il Mausoleo di Shi Huanghi col suo celebre Esercito di Terracotta. Nel trovarsi di fronte a queste otto mila sta tue di guerrieri armati si prova ancora oggi un senso di spaesamento: è come se la nostra percezione cl.ella realtà sia messa in scacco dalla potenza dell\nvenzione, come se la prassi venga minacciata dalla forza della creatività. Chi è stato così grande nell’aver prodotto un simile repertorio di umanità surrogata e alternativa? Ecco questa è la don1anda che nasce al contatto con le statue di D’ Agostini, il quale invece di imitare il vero ha preferito reinventarlo_, costruire una seconda società di parvenze con altri uomini, altri idoli, ulteriori mitologie. Se ora noi conosciamo 1) eroismo di Eracle, la storia del Minotauro e la fucina di Vulcano grazie ad una tradizione collettiva, quando scomparirà D’ Agostini nessuno più sarà custode dei segreti di quelle figure cl1e d)un tratto assumeranno !)imperturbabile mutismo delle sfingi .. ·n silenzio è infatti il protagonista di questo epos la cu1 grandezza appare delicatamente percepita attraverso ·un linguaggio ruvido, quasi extra-terrestre. . .. cclRi e e la Regina” è forse il suo gruppo sc:11tore~ p1u emblematico, con la coppia dei sovrano unita ass1en,1,: da un comune destino, ·presumibilmente avverso. Vi e qualcosa di religioso come in molta statuaria fun~raria, senza però traccia di dolore e di tristezza. I volti conservano una solennità austera, un rigore del ruolo appartenuto solo ai grandi spiriti della storia: Saul, :ì~ti: la, Macbeth, Lear. Perché il ti taoismo di D, Agost1n1 e qualcosa di diverso dal gigantismo oggi troppo di moda: non è un fatto di misure ma di altezza~ morale ovviamente. Titanismo come tracotanza, accettazione del prop,rio crollo, come un rodico colosso conscio del suo imminente sgretolamento. La fine di un regno, percepita, è parte integrante del grande disegn.o del re-sacerdote. Inoltre l~idea di potestà viene desunta attraverso i medioevali concetti di imperio e potere temporale: se la coppia sacerdotale Re-Regina rappresentano quello che era l’autorità politica, il gruppo dei Pianeti funge da guida astrale perciò spirituale. Entrambi sono organismi universali che si scontrano per la supremazia dell~ altro. Questi pianeti sono archetipi di forze antiche, grandezze incomunicabili, simulacri di domini celesti. Marte (terracotta dipinta, 2004) è una sagoma tonante di terribile solennità ieratica .. Nettuno (terracotta~ 2008) è una scultura abissale, turrita come un bastione sommerso divenuto tana, magione, avamposto. Come il polpo deformato nella fessura della roccia, questa deità penetrata regna poiché nascosta nel suo bunker affondato che Io rende simile ad un pinguino del male. Urano ( terracotta dipinta 2009) invece è la fine, la p·otenza col_pita, segmentata, oggettualizzata. Protesi di corpo geometriche come mensole o grucce~ questi anelli planetari sono emanati da quel corpo come schegge, escrescenze,. satelliti. Urano, con le sue orbite lente e a bassa luminosità} è un gigante ghiacciato simile ad un L·ucif ero dantesco co11ficcato nel p,ozzo estremo.
Maurizio D’Agostini presente nell’Atlante dell’Arte Contemporanea De Agostini 2020 come primo artista della regione Veneto
Testo critico di Agata Keran, estratto dalla rivista trimestrale “Amedit”, autunno 2020.
Incisore, scultore, pittore: tre specialità che segnano e scandiscono la ricerca espressiva di un artista pensatore, per molti aspetti controcorrente. Dal bulino allo scalpello, per dedicarsi , negli ultimi tempi e quasi per sfida, anche alla lievità finora inesplorata del pennello e alle sue inattese alchimie cromatiche. Un percorso sfaccettato e, al contempo, coerente e organico, senza cesure o ripensamenti. In ogni epifania del suo multiforme estro, Maurizio D’Agostini continua pertanto a scolpire alacremente il segno, a donare un respiro volumetrico alla materia trattata. Balza alla mente dai cassetti della memoria l’espressione “scolpire il tempo”, coniata dal regista Andrej Tarkovskij, i cui temi cinematografici presentano molte affinità e tangenze con il fecondo immaginario dell’artista veneto. Una forma mentis figurativa, sollecitata sovente da immagini filmiche, teatrali e musicali, in cui trovano casa miti e presenze allegoriche legate a un tempo fuori dalla storia, al di là del presente caotico che ci circonda e mette a soqquadro l’equilibrio psichico dell’individuo. L’arte di Maurizio è una forma di bilancia visiva ed emozionale tra l’antico quasi ancestrale e la tensione continua verso nuovi orizzonti, da scavare ancora con attrezzi esplorativi dell’homo faber. Egli appartiene alla genia dei classici controcorrente: le sue immagini di Venere non assomigliano per nulla a quella di Milo o della sua discendente spirituale dipinta da Botticelli, ma riportano lo sguardo verso l’archetipo primordiale della Grande Madre, tentando di forgiare un ologramma di carattere più aperto e universale, in cui la tradizione formale del mondo occidentale incontra in modo curioso e sincero le memorie sacre d’Oriente, sulla scia illuminante di Mircea Eliade e Constantin Brancusi. Non a caso, anche per la produzione plastica di D’Agostini – seppur stilisticamente lontana dal linguaggio pìù essenziale e primitivista dello scultore romeno – calzano a perfezione le parole del grande studioso dei miti dedicate a Brancusi: “[Egli] ha riscoperto la visione straordinaria di un uomo per il quale la pietra esiste, la roccia esiste, in un modo, diciamo, “ierofanico”. Ha ritrovato dall’interno, l’universo di valori dell’uomo arcaico. ( … ] lo sono sempre stato affascinato da questo problema: come ritrovare l’unità fondamentale, se non del genere umano, almeno di una certa civiltà indivisa nel passato dell’Europa?” (in M. Eliade, La prova def labirinto, Milano1990, p. 58). La ricerca spirituale che D’Agostini continua ad affinare nel corso del tempo ha una particolare vena geoculturale che nulla toglie alla sua vocazione globale: il suo temperamento espressivo tocca le corde profonde del paesaggio veneto, di cui egli si mostra cantore e genius foci. I colori gentili della terra nobile di Andrea Palladio, Giangiorgio Trissino e Antonio Pigafetta e la materia morbida e plasmabile dei colli berici ed euganei, costellati di numerosi gioielli architettonici, rimangono nella filigrana di ogni sua creazione. Misura, estro e armonia: il mito delle origini prende corpo nuovamente, rigenerandosi appieno, e diventa poesia figurata di un presente eterno e assieme intimo. Sogno ad occhi aperti di curare un allestimento di queste opere simbolicamente eloquenti nel loro habitat naturale, ossia all’interno di una delle ville antiche dove gli ambienti interni ed esterni, a partire dal cornicione o dal giardino, riverbera noi medesimi temi e quesiti della classicità, restituiti allo sguardo contemporaneo in seguito a una riscrittura sostanziale del loro messaggio ultimo. Uno degli apici qualitativi di questo processo di restituzione originale della tradizione mitologica è il ciclo scultoreo di sette Pianeti, realizzati in terracotta dipinta (semirè) tra il 2002 e il 2009 in seguito a un’importante sollecitazione musicale legata all’omonima suite per grande orchestra di Gustav Theodor Holst, di intensa ispirazione teosofica, scritta tra il 1914 e li 1916. Racconta lo stesso autore: “Mi appassionai alla suite musicale de I sette pianeti di Gustav Holst a casa di amici, i coniugi Borgato. [ … J Ero inebriato da quelle musiche. Il mio scopo consisteva nel materializzare quei suoni secondo le mie visioni, riuscire a creare delle sculture che fossero in grado di rappresentare le musiche che ascoltavo. Fu un’impresa dl cui vado molto fiero, una ricerca e una sperimentazione che mi ha portato molto lontano, nel mondo esaltante del mistero e dell’inconscio. E cosi nacquero in ordine temporale Giove, Saturno, Marte, Venere, Nettuno, Mercurio e Urano.” (in f pianeti di Maurizio D’Agostini, s.l. 2016, p. 11 ). Dopo una lunga meditazione sull’argomento, ogni movimento sonoro di Holst acquisisce un equivalente plastico attraverso il gesto creativo dell’artista veneto: Mars, the Bringer of War,· Venus. the Bringer of Peace; Mercury, the Winged Messenger; Jupiter. the Bringer of Jollity; Saturn, the Bringer of 0ld Age; Uranus, the Magician; Neptune, the Mystic. Il prezioso bagaglio sapienziale del mito, che ha incantato gli umanisti del passato, incontra in quest’occasione la sensibilità del “secolo breve”, lacerato da aspri conflitti e radicali trasformazioni, per salutare con grande energia espressiva l’alba del nuovo millennio, rendendo viva la promessa della sopravvivenza degli antichi dei oltre la soglia dell’era digitale. La dimensione storica e antropologica del mito lascia spazio alla visione personale e soggettiva dell’artista demiurgo che risemantizza liberamente un racconto radicato tra i meandri nell’immaginario collettivo. “Le sculture dei sette pianeti sono in realtà la rappresentazione visiva delle mie molteplici personalità. Le_m ie opere nascono dallo scatenamento dell’immaginazione, che si trasforma.
di Agata Keran
Maurizio D’Agostini presente nell’Atlante dell’Arte Contemporanea De Agostini 2019
dal 1 maggio al 14 giugno 2009 Casa Cima Via Cime, 24 – Conegliano
La serie dei Pianeti, che l’esposizione di Casa Cima presenta, per la prima volta, nella sua interezza, e` frutto di lunga gestazione. Tuttavia, come sempre accade per le opere di D’Agostini, dipende da un’intuizione immediata. La scintilla creativa scocca in un giorno d’autunno del 2001, quando all’artista capita l’occasione di ascoltare Mars di Gustav Holst, interpretato dal giovane pianista Jgor Roma. E` lo strumentista, di cui D’Agostini coglie “l’intelligenza istintiva e l’energia straripante”, a guidarlo alla scoperta dei sette movimenti che compongono la celebre suite dedicata ai Pianeti: un incontro, quello di D’Agostini con l’opera del compositore, che inevitabilmente muove profonde consonanze. Concependo l’idea realizzare un ciclo scultoreo dedicato ai Pianeti, D’Agostini ha da subito la consapevolezza di essersi impegnato in un’avventura allettante, ma anche in un’impresa complicata, che prevede tempi lunghi. Previsione esatta: dalla realizzazione della prima opera, Zeus, a quella recentissima di Urano sono passati infatti sette anni. Nel delineare le iconografi e dei Pianeti, D’Agostini ripercorre il complesso progetto holstiano, che rappresenta un omaggio alle caratteristiche delle divinita` mitologiche che sovraintendono ai corpi celesti, ma anche alle peculiarita` astrologiche e fi sico-astronomiche di ciascun pianeta (ad eccezione di Plutone, peraltro scoperto dopo la composizione), a cui il pensiero pre-scientifi co associa i segni zodiacali. Holst sviluppa l’immagine musicale di Marte come portatore di guerra, di Venere come portatore di pace, di Mercurio in quanto messaggero alato, di Giove come portatore di gioia, di Saturno come portatore della vecchiaia; mentre associa l’immagine di Urano alla fi gura del Mago e a Nettuno la valenza mistica. In tal modo il compositore supera la suddivisione antica, che assegna a Giove e Venere valenza esclusivamente positiva, a Saturno e Marte i connotati di stellae malefi cae e a Mercurio una potenzialita` ambivalente. Considera invece i Pianeti come espressione delle forze essenziali dell’universo, per cui e` forse piu` corretto aff ermare che, mentre di Marte, Giove, Venere e Saturno, Holst traccia una sorta di “ritratto caratteriale”, di Mercurio, Urano e Nettuno illustra le virtualita`. Il moto instancabile del messaggero alato si traduce nello scherzo veloce di Mercurio. Uranus, Th e Magician, che risentirebbe dell’incedere frenetico de L’Apprendista Stregone di Paul Dukas, allude al potere trasformatore del pianeta di riferimento, che spinge a innovare, ad andare controcorrente (la stessa rotazione del pianeta avviene in senso contrario). Nettuno, il mistico e` privo di tema defi nito, in ragione della valenza del pianeta, che induce alla graduale consapevolezza dell’impermanenza di cio` che e` materiale e del suo necessario dissolvimento nell’elemento spirituale. Nelle illuminanti pagine di diario, in cui annota l’itinerario creativo dei Pianeti, Maurizio D’Agostini I PIANETI insiste a proporre di sè l’immagine romantica dell’artista “ingenuo”, che si limita “ad ascoltare semplicemente le melodie, e a far scorrere le dita sulla materia, liberamente, come un bambino, avvolto dalla sua sconfi nata fantasia, dal suo mondo, fatto di acqua che scorre”. Senza nulla togliere alla sincerita` di tale metodo percettivo, appare chiaro come egli abbia colto profondamente la complessa tessitura linguistica dell’opera di Holst. La scrittura di Holst e` sincretica: procede da un iniziale wagnerismo all’attenzione per il canto popolare e il recupero del barocco. Anche gli interessi culturali del musicista sono molteplici: spaziano dall’astrologia al pensiero gnostico, dalle dottrine teosofi che ai testi sanscriti. Rigore ed essenzialita` si sposano con un’immaginifi ca capacita` comunicativa, che ha fatto si` che I Pianeti, composti fra il 1914 e il 1916, abbiano trovato ampia eco nella produzione sonora del Novecento: sono stati variamente utilizzati come colonna sonora e hanno ispirato molta musica per fi lm, ma anche certe sonorita` del progressive rock. Conseguentemente, D’Agostini procede al compimento di un’opera che contiene innumerevoli ascendenze e che si connota per discontinuita`, che l’artista evidenzia nella ricerca, per ciascuna opera, di un proprium linguistico. Si prenda in considerazione il primogenito della serie, Zeus (2002), ispirato all’Jupiter holstiano: l’andamento ascensionale dell’opera, reclinata all’indietro, enfatizza la regalita` della fi gura, che riecheggia la maestosita` delle rappresentazioni dei dignitari maya del periodo Classico Recente, pur conservando una pulizia che rinvia all’arte cicladica (tanto cara ai padri della scultura contemporanea: basti pensare ad Arp). Anche l’altorilievo della testa, che emerge da un’aureola cuspidata di gusto orientale, rimanda all’antico, ed in particolare alla statuaria celebrativa cartaginese. Eppure anche qui, come sempre, D’Agostini non trasmette nessun aff anno archeologico; lo prova l’invenzione delle braccia aperte di Zeus, che terminano in due inaspettati piatti d’orchestra, che cita l’uso di tali strumenti nel brano di Holst, ma che sta a signifi – care innanzittutto la positiva giovialitą del dio, capace di dar ordine all’universo attraverso un gesto sonoro. Si prenda ora in considerazione Saturno, opera anch’essa del 2002: quanto Zeus raffi gura, nella porosa evidenza del materiale, una forza – bencheĀL benevola – imponente e primigenia, cosi` quest’effi gie appare fl uida, danzante nel moto rotatorio di corpo celeste, quasi ad evocare la musica delle sfere di platonica memoria, ma anche il turbinoso rincorrersi della ciclicita` del tempo, di cui Saturno, che si identifi ca con Cronos, e` signore. Si tratta di un’opera di estrema raffi natezza, che mostra stilizzazioni di sapore deĀLco, in cui D’Agostini pare contraddire l’incedere inesorabile e per certi versi lugubre del brano di Holst, come se volesse esorcizzare il topos saturnino-malinconico con l’inserimento di un elemento ironico: il grande anello piatto (evidente riferimento alla caratteristica del pianeta) che diventa una spropositata gorgiera. Eppure, anche questo coup de théČtre instaura un rapporto con la tradizione classica. E` Esiodo, nella Teogonia, a informarci di come Crono, re dell’Eta` dell’Oro, sapendo di dover essere detronizzato da uno dei suoi fi gli, divori la prole; il disco-gorgiera taglia il volto del Saturno di D’Agostini appena sotto il naso affi lato, quasi a impedirgli di compiere l’atto cruento. Trascorrono due anni fra l’esecuzione di Saturno e quella di Marte. Dopo aver vagliato “una moltitudine di idee” e aver tracciato tanti schizzi e disegni, d’Agostini opta per una soluzione in apparenza semplice, in cui e` fortemente ricercato l’impatto visivo. Marte mostra valenze formali opposte a Saturno: nell’opera precedente, tutto si traduce in movimento; qui vige la staticita`. Si tratta di un’opera che ha la ieratica assolutezza dei kouroi greci, ma non manca di drammaticita`; anzi, il “Portatore di Guerra” sembra il protagonista di una tragedia greca: irrompe sulla scena con l’incedere di un Agamennone. La sua terribilita` e` tanto piu` intensa quanto e` raggelata nel cimiero ferino che gli copre il volto e nel mantello di cui e` catafratto; prende forma plastica, nel modo piu` esatto ed effi cace, l’energia trasmessa da Jgor Roma nell’esecuzione di Mars, Th e Bringer of War, defi nito “il piu` feroce pezzo di musica di tutti i tempi”, che ha folgorato l’artista e ha provocato la serie scultorea. Una sola nota tecnica vale la pena di aggiungere: in Marte rivive il Maurizio D’Agostini cesellatore orafo, che pazientemente impreziosisce il manufatto con una serie di microincisioni che acuiscono la vibrazione luminosa del mantello e della maglia di ferro che copre il volto del pianeta-dio. Anche Venere, opera del 2005, appare in sostanziale consonanza con Venus di Holst. Anzi, l’indicazione holstiana consente a D’Agostini di misurarsi con un’iconografi a assai poco frequentata, almeno dalla contemporaneita`. Venere e` qui evocata prima di tutto come Lucifero, stella mattutina di serena purezza: e` “lo bel pianeta” che Dante incontra fuoriuscendo dall’Inferno, l’astro “che d’amar conforta” e che fa “rider tutto l’oriente”: un’entita` pacifi cante, che gli antichi inni liturgici cantano come simbolo di Cristo, “speranza e luce della vita umana”. Anche in questa veste, comunque, Venere e` dea dell’amore, ma non si tratta tanto di Voluptas quanto di Eros che tutto genera: la Venere di D’Agostini e` nume del concepimento e della rinascita. E` interessante notare come l’opera sappia rendere contemporaneamente l’assorta postura dell’orante e le caratteristiche della femminilita` feconda: lo attestano le mani, semichiuse in preghiera, eppure richiamanti l’elemento genitale; lo attesta il doppio involucro uterino da cui Venere sboccia come un fi ore e che si triplica nella tiara, che allude alla rosa dai cinque petali, simbolo assai frequentato dal pensiero ermetico, emblema di Venere stessa e dell’amor platonico. Holstiano, per ispirazione, e` anche Nettuno, alla cui realizzazione D’Agostini perviene dopo una pausa tormentosa. Di tutte le opere che compongono il ciclo, Nettuno e` la piu` misteriosa: qui, davvero, l’incombenza del simbolo, con tutto il suo portato di non-detto e di irresolvibilita`, ha la meglio su ogni pur riuscita allegorizzazione. Nettuno si presenta nelle fattezze di un giovane che guarda verso il basso, come provato dal peso del suo destino super-umano, che lo rende fi gura aliena e mutante, come attesta la criniera lunata che gli solca la nuca e le spalle. La gravita` della sua mistica conoscenza lo attraversa e quasi lo scinde attraverso un’incessante intersecazione di lame, che alludono all’illusorieta` delle forme, nella cui resa l’inventivita` metafi sica di D’Agostini da` il meglio di seĀL. Passa del tempo, prima che l’artista ponga mano al compimento della serie. Finalmente, nel 2008, vede la luce Mercurio. L’opera rappresenta, ancora una volta, uno scarto irrituale. Maurizio D’Agostini ama collocarsi, non senza accento polemico, fra gli artisti fi gurativi. Sulla scorta di un’illuminante intuizione di Dino Formaggio, sarebbe piu` esatto dire che la sua arte, piu` che fi gurativa, e` fi gurale1; ma tralasciamo di insistere sulla distinzione, che aprirebbe un supplemento d’indagine insostenibile nel presente contesto. Vale invece la pena di sottolineare che Mercurio non e` opera che abbisogni in alcun modo della fi gurazione. Mercurio non e` fi gura; e`, piuttosto, macchina celeste (“celestita`” ribadita, fra l’altro, dalla patina azzurrognola della scultura). In quanto tale, e` produttore di forze: D’Agostini lo immagina come una sfera provvista di ali, connessa, attraverso un anello, a una semisfera che fa da base alla scultura. Ancora una volta fedele alla visione di Holst, ma anche al pensiero classico, del pianeta-messaggero D’Agostini coglie la virtualita`. Mercurio e` una forza in perenne movimento, il messaggero alato che mette in relazione entita` e mondi diversi: e` tramite fra gli uomini e gli dei, fra il mondo dei vivi e dei morti, fra il mondo del naturale e del soprannaturale. Alchemicamente, e` il principio di ogni trasformazione. E` il moto che spinge al rischio dell’impresa, anche oltre il limite del lecito: Mercurio e` dio dei ladri e, insieme, nume sapienziale. La soluzione plastica, che richiama nelle forme la cupola equatoriale di un osservatorio astronomico, deriva da una suggestione di viaggio: nel 2007 D’Agostini visita l’Uzbekistan. A Samarcanda, scopre i resti dell’osservatorio di Oulough Begh, l’illuminato sovrano che, nel XV secolo, fece costruire un’imponente Quadrante Celeste, provvisto di un sestante dal raggio di circa 36 metri, che gli permise di compilare il piu` completo catalogo di stelle dopo quello stilato da Tolomeo e prima del catalogo moderno di Tycho Brahe; e di uno gnomone alto 50 metri con cui determino` la lunghezza dell’anno siderale. Azzarderei anche un’altra ipotesi: nel concepire il suo inedito Mercurio, D’Agostini rispolvera l’antico amore per i congegni “meccanici” dadaisti e surrealisti, che tante volte ha reinterpretato nell’opera incisoria. Mentre stiliamo la presente nota, Maurizio D’Agostini sta dando forma all’argilla per completare l’ultimo pianeta mancante, quello che Holst chiama Th e Magician: Urano. Ne scriviamo, pertanto, sulla scorta dei magnifi ci disegni preparatori, che risulteranno sicuramente altro rispetto alla plastica defi nitiva, ma che illuminano la genesi dell’opera. Fin dai primi schizzi, l’artista ha concepito la fi gura del pianeta-mago come una fi gura semiumana, il cui enigmatico volto e` parzialmente nascosto da una maschera e da valve che si aprono in successione, creando la suggestione di una scenografi ca cappa. Il busto, che inizialmente D’Agostini pensava di sintetizzare in una serie di contenitori troncoconici sovrapposti (secondo una soluzione che, per certi versi, richiama Venere), si confi gura, nei progetti successivi, come una complessa architettura dotata di porte alternativamente aperte e chiuse; una struttura cava, con cui l’artista torna sul tema del “tempio” e della “torre della sapienza”, provata anche in opere recenti (Il bambino prodigio, 2004). L’idea di fondo e` precisa: forte delle sue prerogative divinatorie (allegorizzate dai dadi e dalle sfere, che in taluni disegni sono visibili all’interno delle aperture), Urano off re risposte che signifi cano ma non svelano, sottoponendo l’interrogante, in cui si identifi ca il fruitore dell’opera, al rischio dell’interpretazione. Chiusa nella sintesi di scultura-labirinto, l’ambiguita` di Urano richiama il motto che si ripete fra le spire del Labirinto del Palazzo Ducale di Mantova: “Forse che sď, forse che no”, alludendo al potere del destino, ma anche al laborioso e sempre incerto iter della creazione artistica. Considerandoli nel loro insieme, appare chiaro come I Pianeti di Maurizio D’Agostini, per quel rimandarsi l’uno all’altro, pur nell’unicita` di ognuno, esprimano, nel lacerato e incertissimo panorama odierno, la rara e conclusa unita` del ciclo. Nonostante cio`, non sfugge che ciascuna e tutte queste opere hanno in seĀL una potenzialita` ulteriore, la possibilita` di diventar altro, come accade per ogni work in progress che si rispetti, di lunga gestazione perché frutto di lungo pensiero, concepito per restare opera aperta. Che ne sara` di loro? Forse, come l’artista stesso ha immaginato nelle pagine dei suoi diari, diventeranno i protagonisti e gli ispiratori di un’opera teatrale, di un grande rito scenico, nel quale nuova musica e nuovi cori rinverdiranno i fasti di Holst. O forse assumeranno proporzioni monumentali, adatte a popolare il “giardino segreto” di qualche avita residenza signorile, come gia` e` accaduto per l’Educazione dell’Anima del 1997, in pietra gialla e grigia di San Germano ai Berici, che si puo` scoprire visitando il parco di Villa Pigafetta-Camerini, a Mossano. Per il momento, accontentiamoci di goderne negli spazi raccolti e pieni di echi di Casa Cima, dove, insieme alle rimanenti opere “cosmiche”, I Pianeti disegnano gia` un succulento percorso sapienzale, creando una suggestione che rammemora, in miniatura, il parco neoplatonico di Bomarzo, dove la volonta` del suo inventore, lo sdegnoso e dotto gentiluomo Vicino Orsini, impone “che ognuno incontri ciò che più gli sta a cuore e che tutti vi si smarriscano”.
Fabio Girardello
Durante la lavorazione di “L’Argonauta” bronzo di (cm 350 x 450) opera in bronzo che sarà posizionata nel giardino della ditta Inox Tech di Lendinara (RO). During the processing of “The Argonaut”
Durante la lavorazione di “Le ali della libertà” (cm. 230 x 280), opera che sarà realizzata in bronzo e verrà installata nel corso della primavera 2007 nel giardino di una villa privata a Boston (USA).
During the processing of “Freedom Wings” 8cm. 230 x 280), work which will be cast in bronze and set up in the garden of a private house in Boston (USA) in spring 2007.
La scultura “Le ali della libertà” è arrivata negli Stati Uniti. Have arrived in Weston (Boston)
Maurizio D’Agostini Immaginazione, materia e sentimento SCULTURE E DISEGNI dal 17 giugno al 27 agosto 2006 LAMeC, Basilica Palladiana VICENZA Orario di apertura: mar – ven: 10.30 – 13.00 / 15.00 – 19.00 sab – dom: 10.30 – 13.00 / 15.00 – 22.00 ingresso libero
Le sculture di D’Agostini sembrano incredibilmente essere nate al di fuori da questo tempo, prima della politica, prima della televisione, prima del degrado che siamo costretti a guardare senza poter fare nulla. A noi va benissimo così. Saliamo sul veliero del “Navigatore solitario”, ascoltiamo rapiti il “Suonatore del vento” , stiamo in attesa di fronte alla “Regina”, felici che oggi possa esistere ancora un immaginario così, in cui l’individuo, l’artista, è in grado di sovvertire la realtà. Bastandosi. Beatrice Buscaroli