Les Planètes
dal 1 maggio al 14 giugno 2009 Casa Cima Via Cime, 24 – Conegliano
La serie dei Pianeti, che l’esposizione di Casa Cima presenta, per la prima volta, nella sua interezza, e` frutto di lunga gestazione. Tuttavia, come sempre accade per le opere di D’Agostini, dipende da un’intuizione immediata. La scintilla creativa scocca in un giorno d’autunno del 2001, quando all’artista capita l’occasione di ascoltare Mars di Gustav Holst, interpretato dal giovane pianista Jgor Roma. E` lo strumentista, di cui D’Agostini coglie “l’intelligenza istintiva e l’energia straripante”, a guidarlo alla scoperta dei sette movimenti che compongono la celebre suite dedicata ai Pianeti: un incontro, quello di D’Agostini con l’opera del compositore, che inevitabilmente muove profonde consonanze. Concependo l’idea realizzare un ciclo scultoreo dedicato ai Pianeti, D’Agostini ha da subito la consapevolezza di essersi impegnato in un’avventura allettante, ma anche in un’impresa complicata, che prevede tempi lunghi. Previsione esatta: dalla realizzazione della prima opera, Zeus, a quella recentissima di Urano sono passati infatti sette anni. Nel delineare le iconografi e dei Pianeti, D’Agostini ripercorre il complesso progetto holstiano, che rappresenta un omaggio alle caratteristiche delle divinita` mitologiche che sovraintendono ai corpi celesti, ma anche alle peculiarita` astrologiche e fi sico-astronomiche di ciascun pianeta (ad eccezione di Plutone, peraltro scoperto dopo la composizione), a cui il pensiero pre-scientifi co associa i segni zodiacali. Holst sviluppa l’immagine musicale di Marte come portatore di guerra, di Venere come portatore di pace, di Mercurio in quanto messaggero alato, di Giove come portatore di gioia, di Saturno come portatore della vecchiaia; mentre associa l’immagine di Urano alla fi gura del Mago e a Nettuno la valenza mistica. In tal modo il compositore supera la suddivisione antica, che assegna a Giove e Venere valenza esclusivamente positiva, a Saturno e Marte i connotati di stellae malefi cae e a Mercurio una potenzialita` ambivalente. Considera invece i Pianeti come espressione delle forze essenziali dell’universo, per cui e` forse piu` corretto aff ermare che, mentre di Marte, Giove, Venere e Saturno, Holst traccia una sorta di “ritratto caratteriale”, di Mercurio, Urano e Nettuno illustra le virtualita`. Il moto instancabile del messaggero alato si traduce nello scherzo veloce di Mercurio. Uranus, Th e Magician, che risentirebbe dell’incedere frenetico de L’Apprendista Stregone di Paul Dukas, allude al potere trasformatore del pianeta di riferimento, che spinge a innovare, ad andare controcorrente (la stessa rotazione del pianeta avviene in senso contrario). Nettuno, il mistico e` privo di tema defi nito, in ragione della valenza del pianeta, che induce alla graduale consapevolezza dell’impermanenza di cio` che e` materiale e del suo necessario dissolvimento nell’elemento spirituale. Nelle illuminanti pagine di diario, in cui annota l’itinerario creativo dei Pianeti, Maurizio D’Agostini I PIANETI insiste a proporre di sè l’immagine romantica dell’artista “ingenuo”, che si limita “ad ascoltare semplicemente le melodie, e a far scorrere le dita sulla materia, liberamente, come un bambino, avvolto dalla sua sconfi nata fantasia, dal suo mondo, fatto di acqua che scorre”. Senza nulla togliere alla sincerita` di tale metodo percettivo, appare chiaro come egli abbia colto profondamente la complessa tessitura linguistica dell’opera di Holst. La scrittura di Holst e` sincretica: procede da un iniziale wagnerismo all’attenzione per il canto popolare e il recupero del barocco. Anche gli interessi culturali del musicista sono molteplici: spaziano dall’astrologia al pensiero gnostico, dalle dottrine teosofi che ai testi sanscriti. Rigore ed essenzialita` si sposano con un’immaginifi ca capacita` comunicativa, che ha fatto si` che I Pianeti, composti fra il 1914 e il 1916, abbiano trovato ampia eco nella produzione sonora del Novecento: sono stati variamente utilizzati come colonna sonora e hanno ispirato molta musica per fi lm, ma anche certe sonorita` del progressive rock. Conseguentemente, D’Agostini procede al compimento di un’opera che contiene innumerevoli ascendenze e che si connota per discontinuita`, che l’artista evidenzia nella ricerca, per ciascuna opera, di un proprium linguistico. Si prenda in considerazione il primogenito della serie, Zeus (2002), ispirato all’Jupiter holstiano: l’andamento ascensionale dell’opera, reclinata all’indietro, enfatizza la regalita` della fi gura, che riecheggia la maestosita` delle rappresentazioni dei dignitari maya del periodo Classico Recente, pur conservando una pulizia che rinvia all’arte cicladica (tanto cara ai padri della scultura contemporanea: basti pensare ad Arp). Anche l’altorilievo della testa, che emerge da un’aureola cuspidata di gusto orientale, rimanda all’antico, ed in particolare alla statuaria celebrativa cartaginese. Eppure anche qui, come sempre, D’Agostini non trasmette nessun aff anno archeologico; lo prova l’invenzione delle braccia aperte di Zeus, che terminano in due inaspettati piatti d’orchestra, che cita l’uso di tali strumenti nel brano di Holst, ma che sta a signifi – care innanzittutto la positiva giovialitą del dio, capace di dar ordine all’universo attraverso un gesto sonoro. Si prenda ora in considerazione Saturno, opera anch’essa del 2002: quanto Zeus raffi gura, nella porosa evidenza del materiale, una forza – bencheĀL benevola – imponente e primigenia, cosi` quest’effi gie appare fl uida, danzante nel moto rotatorio di corpo celeste, quasi ad evocare la musica delle sfere di platonica memoria, ma anche il turbinoso rincorrersi della ciclicita` del tempo, di cui Saturno, che si identifi ca con Cronos, e` signore. Si tratta di un’opera di estrema raffi natezza, che mostra stilizzazioni di sapore deĀLco, in cui D’Agostini pare contraddire l’incedere inesorabile e per certi versi lugubre del brano di Holst, come se volesse esorcizzare il topos saturnino-malinconico con l’inserimento di un elemento ironico: il grande anello piatto (evidente riferimento alla caratteristica del pianeta) che diventa una spropositata gorgiera. Eppure, anche questo coup de théČtre instaura un rapporto con la tradizione classica. E` Esiodo, nella Teogonia, a informarci di come Crono, re dell’Eta` dell’Oro, sapendo di dover essere detronizzato da uno dei suoi fi gli, divori la prole; il disco-gorgiera taglia il volto del Saturno di D’Agostini appena sotto il naso affi lato, quasi a impedirgli di compiere l’atto cruento. Trascorrono due anni fra l’esecuzione di Saturno e quella di Marte. Dopo aver vagliato “una moltitudine di idee” e aver tracciato tanti schizzi e disegni, d’Agostini opta per una soluzione in apparenza semplice, in cui e` fortemente ricercato l’impatto visivo. Marte mostra valenze formali opposte a Saturno: nell’opera precedente, tutto si traduce in movimento; qui vige la staticita`. Si tratta di un’opera che ha la ieratica assolutezza dei kouroi greci, ma non manca di drammaticita`; anzi, il “Portatore di Guerra” sembra il protagonista di una tragedia greca: irrompe sulla scena con l’incedere di un Agamennone. La sua terribilita` e` tanto piu` intensa quanto e` raggelata nel cimiero ferino che gli copre il volto e nel mantello di cui e` catafratto; prende forma plastica, nel modo piu` esatto ed effi cace, l’energia trasmessa da Jgor Roma nell’esecuzione di Mars, Th e Bringer of War, defi nito “il piu` feroce pezzo di musica di tutti i tempi”, che ha folgorato l’artista e ha provocato la serie scultorea. Una sola nota tecnica vale la pena di aggiungere: in Marte rivive il Maurizio D’Agostini cesellatore orafo, che pazientemente impreziosisce il manufatto con una serie di microincisioni che acuiscono la vibrazione luminosa del mantello e della maglia di ferro che copre il volto del pianeta-dio. Anche Venere, opera del 2005, appare in sostanziale consonanza con Venus di Holst. Anzi, l’indicazione holstiana consente a D’Agostini di misurarsi con un’iconografi a assai poco frequentata, almeno dalla contemporaneita`. Venere e` qui evocata prima di tutto come Lucifero, stella mattutina di serena purezza: e` “lo bel pianeta” che Dante incontra fuoriuscendo dall’Inferno, l’astro “che d’amar conforta” e che fa “rider tutto l’oriente”: un’entita` pacifi cante, che gli antichi inni liturgici cantano come simbolo di Cristo, “speranza e luce della vita umana”. Anche in questa veste, comunque, Venere e` dea dell’amore, ma non si tratta tanto di Voluptas quanto di Eros che tutto genera: la Venere di D’Agostini e` nume del concepimento e della rinascita. E` interessante notare come l’opera sappia rendere contemporaneamente l’assorta postura dell’orante e le caratteristiche della femminilita` feconda: lo attestano le mani, semichiuse in preghiera, eppure richiamanti l’elemento genitale; lo attesta il doppio involucro uterino da cui Venere sboccia come un fi ore e che si triplica nella tiara, che allude alla rosa dai cinque petali, simbolo assai frequentato dal pensiero ermetico, emblema di Venere stessa e dell’amor platonico. Holstiano, per ispirazione, e` anche Nettuno, alla cui realizzazione D’Agostini perviene dopo una pausa tormentosa. Di tutte le opere che compongono il ciclo, Nettuno e` la piu` misteriosa: qui, davvero, l’incombenza del simbolo, con tutto il suo portato di non-detto e di irresolvibilita`, ha la meglio su ogni pur riuscita allegorizzazione. Nettuno si presenta nelle fattezze di un giovane che guarda verso il basso, come provato dal peso del suo destino super-umano, che lo rende fi gura aliena e mutante, come attesta la criniera lunata che gli solca la nuca e le spalle. La gravita` della sua mistica conoscenza lo attraversa e quasi lo scinde attraverso un’incessante intersecazione di lame, che alludono all’illusorieta` delle forme, nella cui resa l’inventivita` metafi sica di D’Agostini da` il meglio di seĀL. Passa del tempo, prima che l’artista ponga mano al compimento della serie. Finalmente, nel 2008, vede la luce Mercurio. L’opera rappresenta, ancora una volta, uno scarto irrituale. Maurizio D’Agostini ama collocarsi, non senza accento polemico, fra gli artisti fi gurativi. Sulla scorta di un’illuminante intuizione di Dino Formaggio, sarebbe piu` esatto dire che la sua arte, piu` che fi gurativa, e` fi gurale1; ma tralasciamo di insistere sulla distinzione, che aprirebbe un supplemento d’indagine insostenibile nel presente contesto. Vale invece la pena di sottolineare che Mercurio non e` opera che abbisogni in alcun modo della fi gurazione. Mercurio non e` fi gura; e`, piuttosto, macchina celeste (“celestita`” ribadita, fra l’altro, dalla patina azzurrognola della scultura). In quanto tale, e` produttore di forze: D’Agostini lo immagina come una sfera provvista di ali, connessa, attraverso un anello, a una semisfera che fa da base alla scultura. Ancora una volta fedele alla visione di Holst, ma anche al pensiero classico, del pianeta-messaggero D’Agostini coglie la virtualita`. Mercurio e` una forza in perenne movimento, il messaggero alato che mette in relazione entita` e mondi diversi: e` tramite fra gli uomini e gli dei, fra il mondo dei vivi e dei morti, fra il mondo del naturale e del soprannaturale. Alchemicamente, e` il principio di ogni trasformazione. E` il moto che spinge al rischio dell’impresa, anche oltre il limite del lecito: Mercurio e` dio dei ladri e, insieme, nume sapienziale. La soluzione plastica, che richiama nelle forme la cupola equatoriale di un osservatorio astronomico, deriva da una suggestione di viaggio: nel 2007 D’Agostini visita l’Uzbekistan. A Samarcanda, scopre i resti dell’osservatorio di Oulough Begh, l’illuminato sovrano che, nel XV secolo, fece costruire un’imponente Quadrante Celeste, provvisto di un sestante dal raggio di circa 36 metri, che gli permise di compilare il piu` completo catalogo di stelle dopo quello stilato da Tolomeo e prima del catalogo moderno di Tycho Brahe; e di uno gnomone alto 50 metri con cui determino` la lunghezza dell’anno siderale. Azzarderei anche un’altra ipotesi: nel concepire il suo inedito Mercurio, D’Agostini rispolvera l’antico amore per i congegni “meccanici” dadaisti e surrealisti, che tante volte ha reinterpretato nell’opera incisoria. Mentre stiliamo la presente nota, Maurizio D’Agostini sta dando forma all’argilla per completare l’ultimo pianeta mancante, quello che Holst chiama Th e Magician: Urano. Ne scriviamo, pertanto, sulla scorta dei magnifi ci disegni preparatori, che risulteranno sicuramente altro rispetto alla plastica defi nitiva, ma che illuminano la genesi dell’opera. Fin dai primi schizzi, l’artista ha concepito la fi gura del pianeta-mago come una fi gura semiumana, il cui enigmatico volto e` parzialmente nascosto da una maschera e da valve che si aprono in successione, creando la suggestione di una scenografi ca cappa. Il busto, che inizialmente D’Agostini pensava di sintetizzare in una serie di contenitori troncoconici sovrapposti (secondo una soluzione che, per certi versi, richiama Venere), si confi gura, nei progetti successivi, come una complessa architettura dotata di porte alternativamente aperte e chiuse; una struttura cava, con cui l’artista torna sul tema del “tempio” e della “torre della sapienza”, provata anche in opere recenti (Il bambino prodigio, 2004). L’idea di fondo e` precisa: forte delle sue prerogative divinatorie (allegorizzate dai dadi e dalle sfere, che in taluni disegni sono visibili all’interno delle aperture), Urano off re risposte che signifi cano ma non svelano, sottoponendo l’interrogante, in cui si identifi ca il fruitore dell’opera, al rischio dell’interpretazione. Chiusa nella sintesi di scultura-labirinto, l’ambiguita` di Urano richiama il motto che si ripete fra le spire del Labirinto del Palazzo Ducale di Mantova: “Forse che sď, forse che no”, alludendo al potere del destino, ma anche al laborioso e sempre incerto iter della creazione artistica. Considerandoli nel loro insieme, appare chiaro come I Pianeti di Maurizio D’Agostini, per quel rimandarsi l’uno all’altro, pur nell’unicita` di ognuno, esprimano, nel lacerato e incertissimo panorama odierno, la rara e conclusa unita` del ciclo. Nonostante cio`, non sfugge che ciascuna e tutte queste opere hanno in seĀL una potenzialita` ulteriore, la possibilita` di diventar altro, come accade per ogni work in progress che si rispetti, di lunga gestazione perché frutto di lungo pensiero, concepito per restare opera aperta. Che ne sara` di loro? Forse, come l’artista stesso ha immaginato nelle pagine dei suoi diari, diventeranno i protagonisti e gli ispiratori di un’opera teatrale, di un grande rito scenico, nel quale nuova musica e nuovi cori rinverdiranno i fasti di Holst. O forse assumeranno proporzioni monumentali, adatte a popolare il “giardino segreto” di qualche avita residenza signorile, come gia` e` accaduto per l’Educazione dell’Anima del 1997, in pietra gialla e grigia di San Germano ai Berici, che si puo` scoprire visitando il parco di Villa Pigafetta-Camerini, a Mossano. Per il momento, accontentiamoci di goderne negli spazi raccolti e pieni di echi di Casa Cima, dove, insieme alle rimanenti opere “cosmiche”, I Pianeti disegnano gia` un succulento percorso sapienzale, creando una suggestione che rammemora, in miniatura, il parco neoplatonico di Bomarzo, dove la volonta` del suo inventore, lo sdegnoso e dotto gentiluomo Vicino Orsini, impone “che ognuno incontri ciò che più gli sta a cuore e che tutti vi si smarriscano”.
Fabio Girardello